La barchetta di Virginia

 

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Nota introduttiva

La prima edizione di questo libretto è comparsa nel lontano 2006 presso l'editore Rainone di Bergamo, in una edizione che ricordava i gloriosi Millelire di Stampa Alternativa. Lo ripropongo a circa dieci anni di distanza in versione elettronica, con la medesima licenza copyleft di quella prima edizione.

In questi dieci anni molte delle mie idee sulla scuola e sull'educazione sono cambiate, così come è cambiata la scuola. Mi sembra tuttavia che questi volumetto, pur con i limiti evidenti di un pamphlet, possa ancora servire a stimolare negli studenti e dei docenti - magari negli studenti e nei docenti insieme - una riflessione su ciò che è, ciò che non è e ciò che dovrebbe essere la scuola

 

Antonio Vigilante

Siena, dicembre 2015

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Millenocecentottantasei

Sono a scuola. Istituto magistrale. Sono nel primo banco della fila di destra. Nella classe ci sono tre file di banchi. I primi banchi sono occupati da quelli che sono risultati perdenti nella corsa del primo giorno di scuola. Quelli più veloci si sono appropriati dei posti in fondo all’aula – i posti che ti permettono di copiare durante il compito, di scribacchiare sul diario o di parlare senza essere costantemente sotto l’occhio del professore.

Non so bene cosa ci faccio qui. Non ho un gran rapporto con la scuola. La scuola media mi ha licenziato giudicandomi sufficiente. Anche se me la cavo nelle materie umanistiche, mi hanno consigliato di iscrivermi ad un istituto professionale. So bene perché; sto cominciando a capirlo.

Ho parlato un po’ con i miei compagni di classe.

Tutti o quasi sono come me. Sufficienti alle medie, figli di operai o gente di campagna; appena qualche rampollo del ceto impiegatizio. Quelli come noi li mandano qui.

Avevo intuito la logica già alla scuola media. La discriminazione si serviva della lingua straniera: le classi con la lingua inglese erano per i figli di famiglie migliori – dal punto di vista strettamente economico, s’intende – quelle di lingua francese erano per noi.

Il mio compagno di banco è alto, con la testa tra le nuvole.

È timidissimo, come me. Durante le lezioni di storia posa la testa sul banco, come per dormire. La professoressa fa finta di niente. Lui no, non dorme. Lo sento cantare sottovoce: Che ne sai tu di un campo di grano Poesia di un amore profano Io rido, piano. E piano piano lui alza la voce. Come se l’aula intorno non esistesse, come se la professoressa non stesse spiegando Giulio Cesare, come se dietro M. non stesse pensando che lui è proprio matto, un matto non più recuperabile: ormai. Lui alza la voce, impercettibilmente, così che non capisco mai quando esattamente quel mormorio diventa un canto a squarciagola. Quando esattamente tutti trattengono il fiato, perché il mio compagno di banco che canta Battisti sovrasta le imprese di Cesare in Gallia. L’istante del suo trionfo, prima che la porta si apra, ed il corridoio lo accolga come un eroe o come un imbecille.

Nella mia carriera scolastica ho sperimentato molte volte il corridoio. All’inizio era umiliante; poi è diventato divertente. Nel giro di poco tempo sono diventato un habitué del corridoio. Mi capiterà di essere mandato fuori anche solo per il modo in cui sono vestito, o perché non piace la mia aria strafottente. Ho escogitato un metodo per costringerli a farmi tornare in classe, quando il corridoio mi viene a noia. Canto. Canto anch’io. Canto a voce alta nel corridoio, disturbando le lezioni di tutte le classi che si affacciano sul corridoio e costringendo il docente a riprendermi con sé. Ma succede molto raramente. In genere mi godo la libertà. Vado in bagno, scrivo sul muro quello che mi passa per la testa – versi delle canzoni degli U2, versi di Verlaine, un ossessivo “chi non danza non sa cosa succede” tratto da un vangelo gnostico – e, quando sono in vena di cattiverie, partecipo ad una delle attività più divertenti possibili in quell’edificio: attaccare una pompa al rubinetto del bagno e far piovere abbondantemente sui bambini dell’asilo che fanno il girotondo nel cortile.

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Millenovecentonovantotto

Primo giorno di scuola. Da docente, voglio dire.

È andata così. Finito, in qualche modo, l’istituto magistrale, ho deciso di iscrivermi all’università. Mi sono iscritto a pedagogia. Perché? Una manciata di anni prima, quan  do avevo quattordici anni, avevo letto Il gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse. A rileggerlo, non l’ho trovato eccezionale; ma a quattordici anni mi colpì profondamente.

Da allora mi entrò nella mente un’idea: l’idea, l’immagine della pedagogia. Prima di allora, credevo che il mondo degli uomini fosse nettamente diviso: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. Dopo aver letto quel libro, quella frattura universale si completò con un terzo elemento.

C’erano i buoni da una parte, i cattivi dall’altra, e in mezzo la pedagogia. La quale, affine alla magia, era in grado di operare il miracolo della conversione, del passaggio dei cattivi dal campo del male a quello del bene.

Non tutto era perduto.

Con il tempo ho dovuto ridimensionare il mio entusiasmo.

Ho capito che esiste un quarto elemento, anch’esso affine alla magia: l’economia. Magicamente l’economia rende alcuni ricchi e felici; altri però li fa poveri e disperati.

L’economia, ho capito, è madre-matrigna della pedagogia, una magia che ne rende possibile o impossibile un’altra.

Mi sono laureato, poi ho continuato a studiare per altri due anni, ho svolto il servizio civile (esercitandomi nella mia magia), ho fatto l’apprendista giornalista, il correttore di bozze, il tutor universitario, il pedagogista in una cooperativa sociale, per due anni ho discusso con un filo  sofo novantenne che stava scrivendo un libro in cui intendeva dimostrare che non esistono da una parte il mito e dall’altra la ragione, ma che la stessa ragione genera miti.

Fino ad approdare a scuola.

È una scuola media. Sono chiamato per una supplenza: sostituirò una professoressa di italiano in malattia per esaurimento nervoso. Salgo in segreteria. L’applicato mi dice di fare attenzione, perché è una classe difficile. “Pensa però che dopo questa esperienza tutte le altre saranno facili”, mi dice per incoraggiarmi. Scendendo le scale sorrido della sua premura. Per chi mi ha preso?

Raggiungo la mia classe. È una prima: ragazzini, quasi bimbi, penso. Apro la porta e mi trovo di fronte ad una bolgia inimmaginabile. Dico “buongiorno”. Non cambia nulla. Sono tutti in piedi, girano liberamente per l’aula, parlano, urlano, ridono. Nessuno sembra essersi accorto della mia presenza. Ripeto “buongiorno”, alzando un po’ la voce. Niente. Grido “buongiorno”. Qualcuno si accorge di me, ma continua come se nulla fosse. “Buongiorno”, urlo come mai ho fatto in vita mia. Si siedono, finalmente.

Approfitto della tregua per raggiungere la cattedra. Mi siedo, faccio la faccia corrucciata, poi mi ricordo della pedagogia e sorrido un po’. In quello stesso istante l’equilibrio precario si infrange: si rialzano, parlano, urlano,  ridono. Devo urlare ancora per fare l’appello. Per tutta l’ora faccio attenzione ad evitare ogni sorriso: e mi dimentico della pedagogia. l

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