L'inquisitore

 

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1. Pioggia

Camminando si limitava a osservare i metri di marciapiede che lo precedevano. Nella sua sottile inconsistenza l'aria si trasformava in ogni istante in cose differenti, pensieri cupi, il volto impassibile di uno sconosciuto che da giorni lo seguiva con un fruscio sinistro.

L'aria muove le foglie e taglia la faccia. L'aria è il freddo che entra fin nelle ossa.

Camminava con le spalle leggermente alzate e la testa quasi immersa nel colletto ampio del maglione ma il freddo penetrava ugualmente. Infilate nelle tasche le mani erano strette su oggetti familiari che trasmettono sicurezza: le chiavi, le monete, piccole cose abbandonate nel cappotto che lui stesso stentava a riconoscere. 

Con lo sguardo distratto dal fuori che lo circonda, le dita frugano in quei piccoli luoghi quasi sconosciuti, appartenuti ad altri prima di lui. Contengono qualcosa di inutile ma capace di replicare un ricordo.

Stava lasciando dietro di sé la porta del Duomo, attraverso la piazza. Lo circondava un deserto di asfalto lucido di pioggia, interrotto da piccoli dislivelli pieni d'acqua e qualche pozzanghera poco profonda. Fra pochi istanti sarebbe stato all'asciutto sul marciapiede dall'altro lato della strada, al sicuro da quella gente che stava per riversarsi sulla piazza; li aveva preceduti di poco, qualche indispensabile istante a tutela della sua solitudine.

Ben avvolto dentro una piccola busta di plastica teneva sottobraccio il libro che aveva preso per il compleanno di Sonia. Un libro che lei avrebbe infilato fra gli altri in uno scaffale della biblioteca. L'avrebbe notato soltanto i giorni successivi, mai più di una settimana, per prenderlo con noncuranza e iniziare a leggerlo.

La pioggia si era fatta più forte ma il freddo era un po' diminuito. Poco prima di svoltare in una strada secondaria, rallentando un poco senza fermarsi guardò per un istante dietro di sé. La piazza di fronte al Duomo si stava affollando e le mille voci di un chiacchiericcio insignificante lo raggiungevano da lontano. Accadeva al termine di ogni funzione, la gente restava sotto la pioggia a parlare, anche per ore in piccoli gruppi di cinque o sei persone. Sembrava che i fedeli dopo ogni funzione trovassero difficoltà a tornare alle proprie case e alle loro occupazioni. 

Discorsi vuoti fatti di niente, attenti a non destare sospetti, cauti. Ciascuno era pronto a denunciare al minimo timore. Anche quando non c'era motivo.

Avesse dimenticato una ricorrenza, un compleanno, un natale, questo sì che Sonia l'avrebbe notato per rinfacciarglielo il giorno stesso, con qualcuna delle sue frasi pungenti e colme di malcelato rancore. Questa era una delle cose che lui non aveva mai compreso del tutto.

Cominció ad avere i primi sospetti qualche mese indietro quasi per gioco. John era una di quelle persone che si difficilmente si arrendono di fronte a quegli eventi che sembrano accadere per caso. Aveva sempre pensato meglio una spiegazione terrificante che una triste rinuncia. Era sempre stato convinto che per quanto un ipotetico piano criminale potesse essere concepito in modo perfetto prima o poi si finisce sempre per commettere un errore. Qualcosa si sottrae al controllo e il gioco viene scoperto. Così vanno le cose, è solo questione di tempo.

Intanto, pensava, là fuori è pieno di imbecilli che trascorrono le giornate a osservare, incapaci di comprendere, il comportamento degli altri. Al minimo sospetto ci si protegge denunciando il proprio vicino di casa o un amico, un conoscente, uno sfigato che resta fottuto.

Vide di nuovo quel volto. Era soltanto un'ombra ma ora non aveva più dubbi. Qualcuno lo stava seguendo.

Tutto era cominciato qualche mese prima, durante gli ultimi mesi dell'inverno. Forse eravamo in febbraio

Aveva comprato l'anello a Sonia senza motivo. Visto in una vetrina l'aveva immaginato sulla sua mano. Quasi per gioco l'aveva messo nel piccolo contenitore di porcellana dove c'erano le sue cose e un braccialetto, per osservarne la sua reazione. Avrebbe riso sorpresa, era sicuro che l'avrebbe vista felice. Nei giorni seguenti invece non accadde nulla, lei aveva evitato accuratamente di notarlo. 

Un mattino lo vide brillare distrattamente al dito medio della sua mano sinistra mentre era ancora concetrato sul suo secondo caffè. Forse Sonia andava troppo di fretta, non aveva tempo per i dettagli, ma si limitó a sorridere con malcelata indifferenza al suo saluto mentre scompariva dietro alla porta che si chiudeva sul pianerottolo, l'ascensore, la città, la sua giornata.

Sonia aveva indossato l'anello per alcuni giorni senza dire nulla, come si trattasse di qualcosa di ovvio. Col tempo Sonia cominciò ad alternarlo ad altri a seconda del vestito e dell'occasione. In effetti, ora che ci pensava, John conosceva ben poco della vita di Sonia durante le sue giornate fuori casa. Lavorava in qualche ufficio pubblico ma del suo lavoro lei parlava sempre malvolentieri cosí le domande di lui così si erano fatte sempre meno frequenti finché non aveva rinunciato del tutto a capire di cosa si trattasse.

Il dettaglio dell'anello peró l'aveva fatto riflettere a lungo, si trattava di un comportamento davvero strano. Aveva pensato anche al loro rapporto, a come si era trasformato in modo irreversibile senza che lui se ne rendesse conto. Sesso occasionale e vita quotidiana. Era convinto che anche questo avesse qualcosa a che vedere con quel suo strano comportamento iniziando a modo suo a fare delle indagini. Non avrebbe saputo dare una spiegazione perché non c'era nulla di evidente. Il suo corpo era sempre lo stesso: la pelle color avorio, liscia e senza la minima cicatrice. Ma forse era proprio questo che lo lasciava perplesso, inquieto.

Era come se Sonia, fin da quando si erano conosciuti, recitasse la parte di un personaggio che non le apparteneva. Non del tutto, almeno.

Aveva impiegato parecchio tempo ad accorgersene. Nei primi tempi la loro vita era diversa. Se davvero come lui ne era quasi certo, Sonia stava soltanto fingendo all'inizio doveva essere stata molto più cauta, o meglio più precisa. Era stato proprio quel suo fare distratto e quasi distaccato degli ultimi tempi che avevano trasformato i suoi sospetti in quelle che per lui erano ormai delle certezze.

Di fronte a qualsiasi fatto imprevisto Sonia non mostrava di farci caso continuando a seguire inconsapevole quello che sembrava essere una trama giá scritta. John si guardò bene dal farle notare qualcosa, tantomeno ne parló con altri. Di quei tempi non si poteva pensare di avere qualche amico, un confidente o una persona fidata senza incorrere quasi certamente in una denuncia. E quella era l'ultima cosa che lui avrebbe desiderato.

Ripensò con attenzione al passato recente di cui conservava ancora ricordi lucidi e precisi. A parte quella inquietante sensazione di essere costantemente osservato non gli era mai accaduto nulla di veramente preoccupante. Sonia invece col trascorrere del tempo aveva ssunto comportamenti sempre più strani, almeno secondo la propria logica.

Lei non notò il primo libro - che pure lesse con attenzione - e nemmeno il secondo. John era sicuro che se le avesse chiesto quando glieli aveva regalati, non avrebbe saputo cosa rispondere.

Continuava a camminare indifferente alla strada che conosceva a perfettamente circondato dalla pioggia insistente, il buio della sera e il silenzio. Se davvero qualcuno lo stava seguendo non avrebbe potuto evitare di sentire i passi dello sconosciuto, percepire una traccia, un piccolo rumore o anche solo un respiro. Invece nulla. Eppure quella sensazione diventava ogni giorno più concreta e consistente.

Quest'anno per il suo compleanno ho in mente qualcosa di nuovo, un regalo molto speciale.

Camminando sotto la pioggia battente immerso in un precoce anticipo della notte non se ne preoccupava. In tutti quegli anni aveva imparato a ignorare la pioggia: tutti prima o poi imparavano a ignorare la pioggia. A tratti quella spiacevole sensazione si attenuava, come se un persecutore immaginario avesse deciso di dargli una tregua. In quei momenti le certezze lasciavano spazio ai dubbi, ospiti inattesi che popolavano la mente costringendolo a pensare a un'infinitá di strani sospetti.

Osservó con un certo sollievo l'immagine del portone di casa che si andava definendo con sempre maggiori dettagli emergendo dalla nebbiosa umidità della sera. Una nebbia mista a pioggia che sfumava in modo quasi surreale la luce debole dei lampioni, troppo distanti per illuminare la strada. 

Lasciata dietro di sé la folla del Duomo lungo tutto il percorso non aveva incrociato un'anima. Tutto sommato preferiva di gran lunga la solitudine dei propri pensieri alla comodità di autobus e metro, sovraccarichi di quella folla che aveva scelto di evitare con cura.

Lo scatto del portone che si apriva mutó improvvisamente il suo stato d'animo. Li dentro lo attendeva una quotidianità conosciuta e senza sorprese, una realtà senza fascino che prometteva una notte tranquilla. Ma quel giorno gli restava ancora qualcosa da fare.

Salutò con un sorriso coridale la portinaia. Lisa come sempre stava sbirciando dietro la tenda della piccola finestra che dà sulle scale. Le bastava un'occhiata per decidere se uscire da quella specie di rifugio che era la guardiola della portineria o sparire velocemente nel piccolo appartamento sul retro. 

Incroció Lisa fuori dall'ingresso della portineria mentre si asciugava le mani nel grembiule. John era certo sarebbe uscita riconoscendolo, come era certo non gli sarebbe stato difficile farsi invitare da quella simpatica pettegola, giusto per bere un caffè.

- Buona sera, visto che tempaccio? Fará freddo stanotte... - salutò lei lasciando la frase in sospeso in attesa di una replica. Le cose stavano andando proprio come sperava. Nel palazzo correva voce che Lisa possedesse un'abilità tutta speciale per far parlare chi le stava di fronte. John non riusciva a immaginare se la sua era semplice curiosità oppure anche lei era uno dei tanti insospettabili delatori, ma abbandonò i propri pensieri per concentrarsi sul presente. 

Parlò del freddo e della pioggia, della giornata, della sera che scendeva troppo presto. Rimasero entrambi in piedi sul pavimento di marmo che dava sull'ingresso della portineria da un lato e la prima rampa di scale dall'altro. Entrambi erano leggermente imbarazzati.

- Vuole entrare un attimo? Metto su un caffè - gli disse scomparendo attraverso la porta a vetri aspettandosi che lui la seguisse senza attendere repliche. Le andò dietro stringendosi nel cappotto e asciugandosi i piedi con cura sullo strofinaccio a mó di stuoino davanti al piccolo ingresso.

Come fu dentro appoggiò con voluta noncuranza la busta ripiegata con dentro il libro su un piccolo ripiano che notò di fianco alla porta. Per anni in quel punto doveva esserci stato un telefono che ora aveva lasciato spazio a un alone piú chiaro sull'intonaco ingrigito. 

Lisa parve non notare il suo gesto. Rientró nella stanza portando un vassoio e due tazzine capovolte nei piattini e lo appoggiò sul piccolo tavolo dell'anticamera. 

Pur superandola in altezza John si lasciò aiutare a sfilarsi il cappotto che voltandosi prese dalle sue mani e appese al piccolo attaccapanni al muro. Sopra i pomelli di legno dell'appendiabiti c'era una mensola nera su cui era appoggiato un cappello di feltro dall'aria consunta che egli non poté fare a meno di notare.

- Era del mio povero marito - disse Lisa con un lieve sospiro - lo lascio lì dove lo metteva lui quando tornava, così quando guardo da quella parte mi sembra ancora che sia a casa… Appena tornato. -

Rientró ancora nell'altra stanza richiamata dal gorgoglio del caffè che saliva per ricomparire dopo qualche istante con una caffettiera fumante che poggiò sul vassoio accanto alle tazze. 

- Quando c'era ancora lui - riprese malinconica - non lo metteva mai al suo posto - continuò indicando con lo sguardo l'appendiabiti - lasciava sempre il cappello dove gli capitava. Ero io che lo mettevo lì sopra. - 

John si rese ben presto conto che era difficile nutrire dei sospetti verso quella persona coi capelli scomposti, l'aria mite e un po' avvilita, ma sapeva anche che lei lo stava osservando con attenzione e chissà quali domande avrebbe voluto fargli.

Lisa avrà avuto una cinquantina d'anni, non molto alta si muoveva frettolosa e quasi con imbarazzo. Aveva l'aria di trovarsi perfettamente a suo agio in quel piccolo appartamento di due stanze - la camera da letto e la cucina - e quella specie di sala o anticamera dotata di una finestrella che dava proprio sul portone. L'ideale per osservare chiunque passasse. Con molta cautela, facendo attenzione a non incrociare troppo spesso il suo sguardo John si guardava intorno senza riuscire a notare nulla di strano. Non c'era niente che facesse presagire qualche elemento stonato. Si trattava semplicemente di una portineria un po' dimessa in cui tutto si trovava in perfetto ordine e dove la pulizia veniva eseguita con cura quasi maniacale. 

Nonostante i suoi sforzi il suo sguardo non riuscì a spingersi oltre la piccola anticamera in cui si trovava. Ogni volta che Lisa si mosse ebbe sempre cura di chiudere la porta lasciandolo solo nella stanza.

John si voltò di scatto al suono della pendola. - Oh, accidenti! Sono già le otto - disse Lisa notando la sua leggera apprensione. 

Nel frattempo lui si era alzato riponendo la sedia con cura al suo posto quasi volesse eliminare le tracce del proprio passaggio da quel luogo denso di un passato pieno di significati che ancora ignorava. 

Gli era rimasta addosso la sensazione di trovarsi in una specie di stanza dei ricordi che alimentava un passato da tenere in vita, un tempo i cui istanti erano rimasti congelati negli oggetti, fra le fessure del muro, nei rintocchi della pendola. L'orologio minuto dopo minuto scandiva un tempo immutabile fatto di giorni sempre uguali. Uscì col cappotto slacciato e le sorrise nuovamente ringraziandola prima di scomparire in cima alla prima rampa di scale.

Non avrebbe potuto immaginare falsità in quella donna. La signora Lisa, la portinaia, da sola aveva costruito un piccolo mondo con le sue ultime certezze. Un modo malinconico di abbandonare il presente che si prospettava ogni giorno piú difficile da accettare.

Lisa non poteva essere una persona dalla quale temere qualcosa. Lui peró aveva ottenuto il suo scopo e Lisa avrebbe involontariamente fatto il resto nelle prossime ore, di questo ne era sicuro.

Salendo le scale a passi misurati non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine di quell'anticamera immobile nello spazio e nel tempo, in cui una donna viveva dei propri ricordi e del proprio passato. Quel luogo minuscolo e raccolto sembrava quasi un'isola che per qualche inspiegabile motivo il destino aveva preservato dai suoi devastanti mutamenti. Soltanto il rincorrersi dei rintocchi delle ore sembrava ricordare a Lisa che anche lei un giorno avrebbe concluso il proprio compito di custode del tempo. Il presente, con la sua violenza affascinante e disumana prima o poi riuscirá a varcare quella porta travolgendo ogni cosa nella feroce attualità di quest'oggi.

In realtá le cose non stavano esattamente come John le aveva immaginate ma lui allora era ancora all'oscuro di tutto.

É la la prima volta che l'appartamento in cui vivo con questa donna mi trasmette questo inspiegabile senso di inquietudine.

- Tesoro! - squillò la voce limpida di Sonia appena la porta si richiuse. - Ciao. Ho qualcosa per te - le disse senza troppo entusiasmo appendendo il cappotto all'ingresso. Quella sera una parte di lui era rimasta fuori a camminare senza meta lungo i marciapiedi bagnati che luccicavano alla debole luce dei lampioni. Una parte di lui era rimasta fuori, libera come si può essere liberi in una città sensuale e assassina.

Lei lo raggiunse accogliendolo con un sorriso radioso. - Buon compleanno, tesoro - le disse senza aggiungere altro, ma Sonia non sembrò notare la sua freddezza mentre si scioglieva in un abbraccio premeditato.

- Grazie! Sei sempre così carino... - Sonia era così reale, credibile con i suoi occhioni profondi e la voce chiara e squillante. Bella e discreta, sempre disponibile, perfetta. Tanto da risultare improbabile, ogni giorno sempre più improbabile. 

Cazzo! Le ho detto che avevo qualcosa per lei, il giorno del suo compleanno, e non le ho dato niente. Ha fatto come se nulla fosse. 

John tacque. Era tutto troppo perfetto e come accadeva ogni giorno anche la cena era pronta per essere consumata.

- Vieni a tavola, Lynx - gli disse andando verso la sala da pranzo e tenendolo per mano. Il suo vero nome era John Lynx ma Sonia lo aveva sempre chiamato Lynx. All'inizio quando si erano conosciuti lui si era presentato a quello che credeva un incontro di lavoro dicendole Piacere, Lynx. Lei l'aveva guardato con un'espressione fra l'interrogativo e lo stupito.

Ah - gli aveva risposto - Sonia. Puoi chiamarmi Sonia, Lynx e da quel giorno tutto aveva avuto inizio.

Lo squillo del campanello interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri. Osservò Sonia ancheggiare verso la porta mentre gli rivolgeva uno sguardo interrogativo.

- Oh signora, buonasera! - disse Sonia sorpresa - Ehm... Buonasera - rispose Lisa con leggero imbarazzo. Era evidente si aspettava John, il quale nel frattempo si era alzato raggiungendo le due donne ferme sulla porta di casa. - Buonasera, Lisa - disse rivolto alla portinaia che stringeva fra le mani il libro ancora avvolto nella busta di plastica. - Lascia pure, faccio io - disse rivolto alla sua compagna che non se lo fece ripetere due volte e si allontanò tornando verso il tavolo da pranzo.

- Vuole entrare un attimo, signora? Stavamo per metterci a tavola, ma... - Oh, no, no - rispose Lisa scrollando risolutamente la testa. - Le ho riportato questo - gli rispose porgendogli il pacchetto con un accenno di sorriso. Lui annuì e lo prese. - L'ha dimenticato in portineria assieme a questo - aggiunse Lisa a bassa voce frugando in una tasca del grembiule.

Ne estrasse un piccolo biglietto ripiegato che Johm infilò in una tasca dei pantaloni senza commentare. Era certo di non aver dimenticato alcun biglietto in portineria. - Bene, allora se non vuole proprio entrare due minuti... - disse congedandosi dalla donna. - No, no, grazie, è molto gentile, magari la prossima volta. -

John non fece in tempo a rispondere che Lisa stava già scendendo le scale. Richiuse la porta e si voltò in direzione della tavola dove Sonia stava mettendo il cibo nei piatti. Percorrendo con passi misurati la poca distanza che lo separava da lei aprì la busta estraendone il contenuto.

- Lynx, che voleva la portinaia? - chiese Sonia distrattamente. Si era voltata verso di lui mentre stava posando il libro su uno scaffale nella piccola libreria in sala da pranzo. - Avevo dimenticato questo in portineria. - rispose indicando il libro. - Mi sono fermato a salutarla e Lisa mi ha offerto un caffè. - Non ho mai saputo tu frequentassi portinaie... La cena è nei piatti. - gli disse, poi senza più ascoltarlo iniziò a mangiare.

John iniziò a mangiare senza piu' tornare sull'argomento. 

La cena e il resto della serata proseguirono immerse in un silenzio greve e improvviso. Fuori la pioggia continuò a ticchettare incessante sui vetri come se tutti gli incubi di una vita si fossero dati appuntamento quella notte cercando di entrare graffiando instancabili alle finestre.

Accumularono i piatti della cena nell'angolo piu' lontano del tavolo. John si alzò a preparare il caffè ma quando si voltò vide che Sonia senza dir nulla era uscita in silenzio dalla sala da pranzo. Versò in un bicchiere una quantità generosa di liquido scuro e fumante poi dopo averlo zuccherato con la tazza in mano lo sorgeggió lentamente. John dedicò gran parte della notte a riflettere su ciò che stava accadendo sprofondato nella poltrona dello studio. Quando ebbe terminato di sorseggiare il caffè si limitò ad appoggiare la tazza il piu' distante possibile dalla poltrona. Rimase in silenzio nella penombra della stanza illuminata soltanto dalla lampada da tavolo che diffondeva una fioca luce giallastra.

Era ormai quasi certo che Sonia stesse recitando una parte, ma ancora gli sfuggiva il motivo. D'altro canto era impossibile non notare le sue incongruenze che diventavano via via sempre piu' evidenti. O forse era lui che ultimamente aveva cominciato a notare ciò che prima gli era sfuggito. Riusciva a mettere a fuoco la realtá con una certa difficoltà. Non sapeva ciò che sarebbe potuto accadere nei giorni a venire ma non si sentiva per nulla tranquillo. 

Ogni volta che Sonia spariva alla sua vista era come uscisse di scena. Forse solo quando non era con lui lei stava vivendo la sua vera vita, quella di cui John ignorava gran parte.

John si rendeva conto di non sapere cosa stava cercando. Era come se per gran parte della sua vita si fosse lasciato guidare dalla consuetudine finché un giorno i suoi sensi si erano improvvisamente destati. Era allora che ogni cosa gli era apparsa in una luce completamente nuova. Inclusa la sua vita privata, la sua compagna e tutto ció che lo circondava.

La pioggia continuava senza tregua facendosi sempre più insistente. Un battito discreto e inevitabile che avvolgeva il mondo in un senso di malinconica assuefazione alle consuetudini, alle regole, alla negazione di ogni dissonanza.

La pioggia batteva sui vetri. 

Impensabile uscire a quell'ora. La poltrona vuota dello studio rifletteva debolmente illuminata l'impronta del suo corpo, mentre nell'aria aleggiavano ancora i suoi pensieri ormai confusi con le ombre della notte. Gli oggetti sulla scrivania tracciavano le ombre magiche degli incubi. La penna, un paio di forbici, un foglio stropicciato sopra dei fogli bianchi, una pila di libri tascabili in improbabile equilibrio vicino al bordo del tavolo. Una confezione di nastro adesivo. Ombre immobili di draghi alle pareti in attesa di sferrare il loro micidiale attacco per entrare negli incubi da chiunque si fosse lasciato catturare dal sonno.

Il profumo dell'incenso precedeva il fumo sottile sospeso nell'aria, anche dopo che il piccolo braciere si era ormai spento. Il sistema automatico di climatizzazione dell'appartamento forniva per la notte una temperatura piacevole in ogni stanza consentendo di muoversi per la casa anche con pochi vestiti addosso. John uscendo dal bagno si sentì percorso da un brivido di freddo.

Sonia dormiva quasi del tutto scoperta come sempre col corpo accarezzato dalle deboli luci della città che giungevano lontane nella camera. Da quella camera non si udiva il ticchettio della pioggia, cosí che si percepiva un silenzio quasi innaturale rotto soltanto dal respiro lento e regolare della donna. John continuava a cercare di porre ordine nei propri pensieri in quella notte che come molte altre si preannunciava senza sonno. 

Eppure non percepiva la stanchezza pur trascorrendo più giorni senza dormire. Doveva trattarsi del Varigon.

Nonostante i cambiamenti degli ultimi mesi John non aveva mai interrotto il trattamento. Sapeva bene che smettere di prendere il Varigon non sarebbe stato uno scherzo anche il giorno che avesse trovato la forza di farlo. Oppure il coraggio. Forse si trattava soltanto di coraggio.

Rimase immobile in silenzio alcuni minuti nel letto. Di fronte, oltre il corpo di Sonia e la stanza c'era la notte umida della città con le luci che da tempo immemorabile avevano preso il posto delle stelle. Mentre la sua mente seguiva il filo dei pensieri il corpo si abbandonava piacevolmente all'eccitazione e alla seduzione.

Gli short di seta del pigiama di lei aderivano perfettamente alle natiche, leggermente contratte e sollevate dal cuscino sotto il ventre. Le lenzuola le coprivano solo le gambe mentre la schiena nuda tracciava una curva leggera fino al capo adagiato sulle braccia conserte. Ad ogni respiro il torace si sollevava lasciando intuire la curva armoniosa dei seni. Dalla sua testa sino alle spalle si scioglieva una cascata di capelli lisci e lunghi di colore blu intenso che si perdeva nel nero della notte.

John sapeva che il colore dei capelli come l'avorio della sua pelle erano solo una menzogna chimica capace di trasformare Sonia nella donna più eccitante che lui avesse mai potuto desiderare. Era perfetta come l'avrebbe immaginata se anziché possederla avesse dovuto cercarla o anche soltanto abbracciarla in sogno. Fin dal loro primo incontro seppe che Sonia faceva uso di Flexagon ma non se ne curò mai molto. Era soltanto un dato di fatto come sapere che fumava o faceva consumo moderato di alcolici. Nient'altro.

Distesa, Sonia occupava buona parte di una diagonale del letto. John si inginocchiò con le gambe divaricate vicno alla sua testa. Il suo membro premeva urgenza di calore e desiderio, cercando la strada per una nudità completa e senza pudori. Raccolse con delicatezza il respiro di lei con le palme delle mani appoggiate ai lati del torace. Amava sentirla respirare attraverso le mani distese, i pollici leggermente affondati fra la carne soda della schiena. Le vertebre danzavano armoniche al ritmo del respiro che si faceva irregolare. Si distese su di lei, lasciando scorrere le mani fino ad afferrarle con forza i glutei che reagirono istantaneamente alla presa. I fremiti lasciavano presagire l'imminente risveglio.

Sentì la sua lingua accarezzargli il membro poi l'irrinunciabile piacere delle labbra umide che a tratti si aprivano silenziose nell'oscurità esplorando ogni istante del sesso e del suo piacere.

Si abbandonò alla bocca che lo avvolse completamente. Poteva immaginare o sognare qualsiasi cosa in quell'attimo perfetto. Trattenne le contrazioni per dilatare il piacere mentre entrambi si confondevano in una linfa di umori primordiali.

- Prendimi - sussurrò Sonia con le labbra socchiuse da cui il liquido ancora caldo tradiva il sogno recente. Inarcando la schiena gli si offriva languidamente aperta ed eccitante alla ricerca di una penetrazione profonda e definitiva. Dentro. La ricerca di un altro abbandono. John si voltò e godendo percorse il suo corpo per entrare. I muscoli del suo corpo di femmina si contrassero ad assorbire il suo sesso, entrambi travolti da ciò che restava della notte.

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2. Flashback

Il portone si richiuse pesantemente alle sue spalle mentre si incamminava sul selciato umido, lasciandosi dietro lo sguardo indiscreto della portinaia. Stava per perdersi ancora una volta nel groviglio della metropoli, un predatore latente che lo poteva ingoiare in qualsiasi momento.

Da una via secondaria svoltò in un paio di vicoli laterali ancora più stretti per riapparire poche centinaia di metri più avanti all'incrocio del corso alberato che tagliava in due il quartiere residenziale dove abitavano. Percorse con passo sostenuto un altro centinaio di metri lungo il viale, che scendeva dolcemente fino a incrociare una delle arterie principali. Era uno dei quattro grandi corsi che dal centro della città si perdevano nell'immensa periferia.

A quell'ora del mattino la pioggia sottile accarezzava il suo viso senza recarle fastidio. Il grigio del cielo lasciava intravedere qualche raggio di sole. L'impermeabile di plastica lucida le copriva a stento la minuscola gonna, lasciando scoperte le gambe ben modellate che proseguivano in un lungo paio di stivali gialli.

Le strade erano quasi deserte a parte qualche autobus semivuoto. le mura dei palazzi riecheggiavano debolmente il calpestio sordo dei suoi tacchi. Camminava con ritmo regolare, misurando i passi sul lastricato di pietre lisce e umide del marciapiede. La città la osservava silenziosa e discreta mentre Sonia si allontava verso il caos. All'incrocio seguente scomparve infilandosi in uno degli ascensori che portavano ai piani inferiori dove scorrevano veloci i treni della metro.

Dopo aver inserito il codice di accesso armeggiò qualche secondo sul sensore della biglietteria automatica in attesa che dalla fessura della macchina uscisse il suo pass. La destinazione registrata sul piccolo rettangolo di plastica blu sarebbe stato il suo lasciapassare per tutta la giornata, ma anche il modo più sicuro per non lasciare tracce del proprio passaggio.

I pass metropolitani erano uno dei pochi mezzi che consentivano di raggiungere qualsiasi destinazione dentro e fuori la cittá in modo quasi del tutto anonimo.

Oltrepassò la barriera di ingresso affrettandosi a infilare in tasca la minuscola scheda elettronica. I cartelli illuminati sparsi ovunque nel dedalo di sotterranei le avrebbero indicato come raggiungere la sua prossima meta.

Il vero motore che muoveva la cittá si trovava sette piani più in basso. In superficie si poteva disporre di autobus e taxi, ma i primi erano lenti, scomodi e pericolosi mentre una corsa in taxi aveva raggiunto prezzi che solo in pochi potevano permettersi. Il denaro non era certo un suo problema, ma Sonia non sarebbe mai salita su un taxi: il modo migliore perché chiunque avesse voluto ficcare il naso nei suoi affari non solo l'avrebbe potuta rintracciare facilmente ma era in grado di conoscere tutti i dettagli del suo tragitto.

Tampo indietro i mezzi pubblici erano diventati troppo pericolosi, continuo obiettivo di vere a proprie bande specializzate che li assaltavano per derubare i clienti e l'incasso. Cosí il sindacato si era organizzato e da qualche anno non c'era mezzo in movimento sulla superficie che non fosse costantenente tracciato dalla centrale con cui era in contatto radio continuo. Questo naturalmente aveva contribuito in grande misura a far sí che il costo di una corsa fosse piú che quadruplicato.

Dopo un labirinto di scale mobili Sonia salí su un convoglio diretto ai confini della metropoli. A quell'ora i vagoni non erano particolarmente affollati e i treni invece molto frequenti, cosí riuscí a trovare posto a sedere nel giro di un paio di fermate. Era quasi un luogo immaginario che le avrebbe fatto smettere di esistere fino a destinazione. Sonia preferiva di gran lunga viaggiare sulla superficie sempre consapevole di dove si trovava.

La metropolitana invece era come una macchina magica dotata di una propria anima nera e maligna. Dentro le carrozze dei treni sotterranei si era circondati dal buio più assoluto, interrotto a intervalli regolari dai lampi delle uscite di sicurezza. Si perdeva il senso del tempo. Nessuna sensazione di viaggio in nessun luogo: sarebbe potuta ritrovarsi al punto di partenza o in qualsiasi altro luogo. Intorno a lei il rumore sordo del treno sui binari l'avvolgeva e accompagnava i suoi pensieri.

Trascorse più di un'ora prima che il treno sotterraneo iniziasse a svuotarsi quasi del tutto. Era ormai l'ultimo passeggero nel suo vagone quando inizió la risalita verso la superficie. Dove si trovava ora, alla periferia estrema della cittá, la metropolitana si era trasformata da underground a semplice mezzo di superficie. Vedeva scorrere attraverso i finestrini edifici abbandonati, campi incolti e grandi capannoni di cemento e metallo con le insegne logore e quasi illeggibili. In lontananza si alzavano sinistre colonne di fumo.

Sonia scese all'ultima fermata. Tutto intorno si percepiva un senso di profondo abbandono. Era giá stata altre volte alla periferia piú estrema della cittá, eppure quel panorama ogni volta riusciva a sorprenderla trasmettendole una profonda inquietudine. Era decisa ad andarsene da quel luogo al piú presto. Appena terminato il suo incarico.

Le poche abitazioni che avevano resistito erano costruzioni fatiscenti, sporche e ingrigite dal tempo. In profondo contrasto con la metropoli in cui le strade fiancheggiavano quartieri interminabili di palazzi e grattacieli le strade della periferia offrivano invece uno spettacolo decadente di vecchie mura e cumuli di macerie. Era difficile riuscire a immaginare questo luogo solo due o tre decenni prima, quando era una zona residenziale e costosissima destinata a pochi.

Negli spazi aperti e lungo i bordi delle strade, attraverso la pavimentazione sconnessa e su ció che restava dei marciapiedi le erbacce avevano preso il sopravvento, contribuendo in buona parte a sgretolare ulteriormente il paesaggio. Era sempre piú raro poter osservare un camion o - ancor meno - un autoarticolato percorrere le poche strade rimaste accessibili ai veicoli. La fabbriche e gli uffici di un tempo fabbriche si erano trasformate in un riparo improvvisato di chi non poteva piú permettersi una casa, nemmeno in quella zona della città.

Pochi chilometri più avanti anche quegli ultimi avamposti si diradavano fino a scomparire. Un'area completamente disabitata poneva fine alle ultime tracce di umanità. Era una terra di nessuno, dove pochi avevano il coraggio di avventurarsi, lacerata dalle gigantesche autostrade sopraelevate che collegavano fra loro le grandi metropoli.

La periferia era un luogo dove l'umanitá che la popolava si limitava a sopravvivere. Anche la pioggia sembrava diversa, insistente come una maledizione a cui nessuno poteva sottrarsi.

Non c'erano zone protette. L'acqua riusciva a insinuarsi come uno spirito maligno in ogni fessura, trascinando con sé polveri e sostanze tossiche, sbriciolando i muri e l'intonaco.

Il senso di umido che si diffondeva dovunque era impossibile da contrastare. Non esisteva un riparo sicuro. Soltanto una terra battuta dal vento in cui il silenzio e l'acqua perdevano la loro naturale sensualità languida della pioggia sottile trasformandosi in una maledizione. Era qualcosa di inarrestabile quel continuo trafiggere la terra con l'incantesimo dell'acqua, una realtà ostile di rivoli sottili attraverso pareti posticce, vetri rotti riparati col cartone, baracche costruite con i cartelloni pubblicitari e lamiera ondulata. Dovunque si vedevano macchie verdastre che che contaminavano le pareti.

La periferia era il luogo dove un riparo all'asciutto era uno dei beni più preziosi, privilegio di pochi. Anche questo luogo aveva le sue leggi e il suo codice d'onore. Fiorivano commerci di denaro sporco, droghe e ogni genere di traffici illeciti. Ci avrebbe pensato la pioggia a lavare il sangue dalle ferite aperte e cancellare la memoria dei duelli nel cuore della notte, in vicoli inaccessibili e strade senza più nome. Ma nemmeno quella pioggia continua e insistente avrebbe potuto lavare il sangue delle ferite aperte dal rancore e dall'emarginazione.

Oltre quell'ultima stazione della metropolitana, vicino al terminal, l'aria era tutto sommato ancora respirabile e il degrado meno evidente. Sonia non avrebbe dovuto camminare ancora a lungo. La periferia era quasi del tutto fuori dal controllo della città, il luogo ideale per chi doveva togliersi dai piedi per un po', sparire e far perdere le proprie tracce. Era anche la meta di chi cercava emozioni fuori dal comune e molto reali, oppure un albergo schifoso in cui trascorrere la notte senza che nessuno facesse troppe domande.

Da quelle parti doveva stare all'erta, non c'era gente che aveva voglia di scherzare ma non era nemmeno la prima volta che il suo contatto le dava appuntamento in un posto del genere.

Si allontanò per poche centinaia di metri attraversando un corso da cui un tempo si snodavano viali alberati che ora avevano lasciato il posto a strade sconnesse quasi irriconoscibili. Era difficile da percorrere anche a piedi. Proseguì con cautela lasciandosi dietro la struttura metallica del terminal che si stagliava imponente con la sua incomprensibile trama di vetro e acciaio.

Da un lato i binari emergevano dalle profondità della terra percorrendo un tratto all'aperto, per trafiggere come pugnali la gigantesca struttura agibile soltanto più in minima parte. Dalla parte opposta un grande spazio aperto si offriva alla vista esponendo detriti. Ciò che restava di una piazza sontuosa era diventato una discarica di rottami. Gemendo in una lenta agonia giorno dopo giorno scomparivano interi quartieri per fare spazio a un innaturale deserto urbano. La pioggia aveva contribuito instancabile scavando le montagnole di detriti da cui si stendevano rivoli rossi di polvere di mattoni trascinati dall'acqua con inarrestabile calma.

Ora le si stagliava di fronte la facciata di un vecchio palazzo che sembrava ancora in buono stato. A giudicare dall'ingresso in disuso e dalla disposizione delle finestre un tempo doveva essere stato un grande albergo. Molto probabilmente era stato trasformato in palazzo-notte, una specie di dormitorio a pagamento che ospitava in appartamenti sovraffollati le famiglie degli operai. Quelli che lavoravano nelle poche fabbriche ancora in funzione. Si trattava per lo più di impianti farmaceutici, i produttori di tranquillanti e sogni artificiali destinati all'agiata borghesia metropolitana. Gli impianti delle società farmaceutiche non avrebbero mai potuto trovar posto anche solo più vicino alla città. La produzione produceva continuamente fiumi di liquami e scorie tossiche, litri di ossidi e metalli pesanti che venivano pompati ogni giorno nell'impianto fognario della periferia separato dal resto della metropoli per questioni di sicurezza.

Sonia entrò in una strada senza uscita lunga non più di un centinaio di metri. All'incirca a metà del vicolo l'insegna di un locale che lampeggiava irregolare confermandole che era giunta alla sua destinazione. La porta del bar era aperta con l'ingresso quasi del tutto ostruito da un uomo alto e corpulento. Si accorse che lo sconosciuto che la osservava fin dal momento in cui aveva svoltato. I loro sguardi si incrociarono per un istante ma lui continuò a fissarla restando in silenzio, in piedi con le braccia conserte. La sua immobolità aveva un che di preoccupante, ricordava un gatto che attende il momento più propizio per catturare la propria preda.

Sonia procedeva sforzandosi di mantere un'andatura tranquilla. Lasciava che la pioggia le scorresse addosso senza mostrare alcun fastidio. Camminava con le mani sprofondate nell'impermeabile facendo attenzione a non inciampare nelle frequenti crepe che segnavano l'asfalto. Lo sconosciuto indossava un lungo maglione nero e un paio di jeans scoloriti. Era appoggiato allo stipite, rientrato giusto quel poco che bastava perché la pioggia lo sfiorasse appena. Ruotando lentamente la testa aveva continuato a seguirla con lo sguardo mostrando di prestare grande attenzione a ogni suo minimo dettaglio.

Giunta in prossimità dell'ingresso un brivido le percorse la schiena. Quello che aveva di fronte non era un uomo ma una specie di gigante dall'espressione ambigua che non le staccava gli occhi di dosso. Non sarebbe comunque stato un problema affrontarlo, anche a mani nude ma quella era l'ultima cosa che avrebbe voluto. Immaginava come la situazione in pochi istanti sarebbe potuta degenerare e non voleva rogne.

Il gigante non accennò a cambiare posizione e Sonia per entrare dovette quasi scavalcarlo mentre superava il piccolo scalino che separava la strada - o quel che ne restava - e l'interno del locale. Non lo aveva ancora superato del tutto che sentì la gonna sprofondarle fra le natiche e una leggera tensione agli slip fra le gambe. Si voltò di scatto, piú sorpresa che irritata vedendo la mano enorme ritrarsi di scatto. I loro occhi si incrociarono nell'istante in cui l'altro lasciava la presa. Sonia gli rispose con un'occhiata di disgusto fra il silenzio indifferente dei presenti. Sputò con disprezzo sui suoi piedi e si allontanò senza piú voltarsi.

Borbottò un insulto fra i denti proseguendo verso il fondo del locale mentre gli altri clienti esplodevano in una fragorosa risata.

Fra l'interno del bar e la piccola porta socchiusa che dava su un bagno da cui giungeva un penetrante odore di urina in una piccola rientranza del muro era appeso un telefono. Sottouna vecchia edizione della guida telefonica con le pagine in gran parte strappate stava appoggiata su una piccola mensa di legno. Sollevò la cornetta e l'appoggiò all'orecchio senza far nulla per qualche secondo, quindi riappese. Tornó sui suoi passi e raggiunse il retro del bancone. L'uomo con cui poco prima si era scontrata ora era seduto ad uno dei tavoli chiacchierando e sorseggiando una birra.

Dietro al banco c'era soltanto una ragazza giovane e minuta intenta ad asciugare bicchieri. Sollevò un istante lo sguardo inestrepssivo poi riprese il suo lavoro in silenzio.

A Sonia bastò un'occhiata per individuare sotto il banco la un cavo telefonico collegato a un altro apparecchio. Un metodo rudimentale ma efficace per ascoltare le conversazioni.

Prese l'apparecchio e lo poggiò sul banco del bar poi con un colpo secco strappò il filo che lo collegava alla linea poi lo immerse con noncuranza nella vasca del lavabo piena d'acqua insaponata. Tornando nuovamente all'altro apparecchio osservó un'altra volta l'uomo gigantesco negli occhi che la fissava dal suo tavolo tenendo in mano il boccale di birra.

"É una telefonata privata" disse allontanandosi senza aspettare risposta.

Il suo compagno spinse indietro la sedia nel gesto di alzarsi ma l'altro lo trattenne mettendogli una mano su una spalla che lo fece ripiombare seduto, senza dire una parola. Tutti gli altri tacquero mentre Sonia scompariva nuovamente nel retro.

Sollevò nuovamente la cornetta trattenendola all'orecchio con la spalla. Questa volta non si udí piú nessuna scarica. L'unica derivazione era stata disattivata.

Accostò la porta sgangherata con la punta dello stivale restando del tutto isolata dal resto del locale, infiló una moneta nella fessura dell'apparecchio e compose velocemente un numero sulla vecchia tastiera a pulsanti. Dopo qualche squillo una voce disturbata all'altro capo della linea disse sltanto - Riaggancia. - Lei ubbidì e attese che il telefono squillasse. - Dimmi - disse "la linea è sicura, possiamo parlare".

Nel frattempo aveva slacciato la giacca e tenendo la cornetta in una mano e l'altra su un fianco si era appoggiata contro lo spigolo del corridoio. - Stammi a sentire pezzo di merda! - esordì. - Prima di tutto devi spiegarmi che cazzo di roba mi hai dato l'ultima volta! - Il Flexagon era di prima qualità e ringrazia che te lo mettono nel rimborso spese altrimenti non te lo potresti certo permettere. - Rispose la voce all'altro capo del filo. - Dovresti chiedere al tuo John che ne pensa del Flexagon, puttanella. - Tua madre! - rispose alzando la voce, incurante che potessero sentire la conversazione.

- Me ne fotto del tuo Flexagon schifoso, brutto stronzo! Anche lo Zovitar era della peggior specie. Non fa quasi più nessun effetto. La notte notte scorsa quello mi ha mezza sfondata e io mi ricordo ancora tutto. I patti non erano questi e tu lo sai benissimo, quindi non fare troppo il furbo -

- Puttanella! Quando ti incazzi sei ancora più eccitante. Ti vesti sempre come una troia quando te ne vai in giro da sola oppure hai cambiato abitudini? Forse sarebbe il caso di scegliere un costume un po' più sobrio, non credi? -

- Una troia che tu non potrai mai permetterti, pezzo di merda. - rispose Sonia con il suo solito tono di voce freddo e distaccato. Professionale.

- Adesso basta cazzate e apri le orecchie! Signora Sonia Hutckinson! Oppure hai un nuovo nome adesso? - rispose l'altro ignorando il cambio di tono di lei. - Abbiamo poco tempo - proseguì senza aspettare la sua risposta. - Al dovresti averlo già conosciuto - l'ha conosciuto meglio il mio culo - ribatté lei secca. - Al - continuó senza far caso al suo tono stizzito - ha pronta per te una bella scatola nuova dello Zovitar a cui tieni tanto. Dovrebbe bastarti per oltre un mese se riesci a non farti scopare troppo spesso dal tuo maiale borghese. -

- Sonia non rispose mordendosi involontariamente il labbro inferiore. - E poi ho un messaggio per te: sbrigati a finire il tuo lavoro. Capito puttanella? Il tuo bel maiale si sta risvegliando e da un giorno all'altro potrebbe tornargli la memoria e noi non vogliamo che questo accada vero? Non possiamo tenerlo buono ancora per molto tempo col Varigon modificato. Finisci in fretta quel che devi e cerca di fare un lavoro pulito, stavolta. -

Sonia non aveva nessuna voglia di prolungare quella sgradevole conversazione oltre lo stretto necessario. - C'é altro? - gli disse dopo qualche secondo di pausa. - No tesoro. Per oggi è tutto. E salutami Al. -

Riappese su una risata grottesca all'altro capo del filo interrompendo bruscamente la comunicazione.

Rientró nella sala del bar avvicinandosi senza fretta al gigante, ancora seduto dove l'aveva lasciato qualche minuto prima. - Credo tu abbia qualcosa che mi serve - gli disse. - Certamente! - fece l'altro scoppiando in una fragorosa risata. Si era alzato in piedi sollevando leggermente il maglione per aggiustarsi la cintura dei pantaloni rivolto agli altri avventori seduti ai tavoli. - Sicuro che ho qualcosa per te! - ripeté ridendo infilandosi una mano nei pantaloni.

Prima che potesse compiere un solo altro gesto si ritrovò con un braccio piegato dietro la schiena e la faccia schiacciata sul tavolino. Dal naso dell'uomo inizió a scendere un sottile rivolo di sangue che si allrgava in una piccola pozza rossa. - La prossima volta che ci riprovi ti faccio saltare anche i coglioni, mi sono spiegata? -

Al si tirò su appena lei ebbe mollato la presa. - Cazzo! - disse asciugandosi il naso con una manica. Con passo incerto massaggiandosi la spalla si avvicinó al bancone dove la ragazzina era rimasta immobile in preda al terrore. - Dai qua, tu! - le disse strappandole di mano lo straccio che usò per tamponarsi il naso. - Ma guarda te brutta troia! Si vede che non hai proprio il senso dell'umorismo - borbottó avvicinandosi a Sonia - Pensa a tua madre. - gli rispose lei senza scomporsi.

- Seguimi stronza maledetta, prenditi quel che ti serve e togliti dalle palle il più presto possibile. -

Senza attendere risposta se ne andó borbottando nel retro del locale attraverso una porta seminascosta dietro il banco dove lasció lo straccio sporco di sangue. Lei lo seguì mentre nella sala nessuno aveva osato fiatare. La ragazzina, che nel frattempo si era appoggiata contro la parete più lontana cercando di farsi notare il meno possibile continuava a ripetere qualche scongiuro sottovoce e farsi ripetutamente il segno della croce. Appena i due scomparvero lasciando che la porta si richiudesse dietro di loro riprese lo straccio e ricominció ad asciugare bicchieri in silenzio.

Entrarono entrambi in un piccolo ufficio lurido illuminato da una sola lampadina che pendeva dal centro del soffitto. L'uomo si avvicinò a una scrivania in pessime condizioni. Se non si fosse trattato di quel dettaglio e della sedia di finta pelle piena di tagli quella stanza poteva essere benissimo uno dei tanti rifugi dei disperati che vivevano da quelle parti. Appoggiate alle pareti c'erano pile di riviste e documenti che coprivano quasi completamente i muri dall'intonaco sgretolato. A giudicare dalla polvere e dalla sporcizia che le ricopriva dovevano essere lí da parecchio tempo. Al sedette sulla sedia tirò fuori da uno dei cassetti un sacchetto di plastica trasparente contenente un centinaio di pillole azzurre che porse a Sonia. Lei lo prese infilandolo velocemente in tasca. Senza indugiare oltre riabbottonò l'impermeabile.

- L'altra uscita? - chiese ad Al che indicò con un cenno del capo un riquadro appena visibile sull'unica parete rimasta quasi del tutto libera dal materiale ammucchiato dovunque. Le fu sufficiente una spinta leggera per ritrovarsi in una galleria poco illuminata. Si incamminò mentre la porta si richiudeva silenziosamente dietro di lei. Lo scatto sordo della serratura elettrica la raggiunse mentre Sonia era già sparita alla vista muovendosi nel tunnel a passi veloci.

Dopo aver camminato nel buio quasi completo per qualche minuto il tunnel svoltava bruscamente. Seguendo la luce che si rifletteva sulle pareti umide scavate nella pietra si ritrovó nell'atrio della casa-notte che dava sulla strada. Dove un tempo c'era la reception dell'albergo di lusso alcuni bambini erano impegnati in una piccola rissa che interruppero per qualche secondo distratti dalla sua improvvisa comparsa. Un attimo dopo si stavano di nuovo azzuffando ignorando del tutto la sua presenza.

Diede un'occhiata all'orologio tatuato sul polso. Doveva sbrigarsi a tornare in città.

Devo ancora togliermi questi vestiti da puttana e vestirmi decentemente prima che John torni a casa pensò mentre si infilava nuovamente in uno dei vagoni della metro. Entro qualche minuto il treno sarebbe partito riempiendosi di persone inconsapevoli. Un destino dal futuro incerto li attendeva scandito dalla prevedibile monotonia del lavoro, la casa, le funzioni e il Varigon.

Prese posto su un sedile in un angolo lasciando che il suo sguardo si perdesse in quel panorama di grottesca devastazione. L'orizzonte impreciso inquadrato dal finestrino ricopriva con una patina surreale la realtá rendendola quasi indolore. Sonia attese pazientemente l'inizio del viaggio di ritorno.

Al rientrò nel locale. L'inserviente, ancora spaventata, teneva fra le mani il telefono gocciolante osservandolo con curiositá. Ancora non si era resa conto di ció che era successo ma come vide il principale l'apparecchio le sfuggí di mano cadendo nuovamente nell'acqua. Il tavolino dove era seduto Al poco prima ora era vuoto. Erano rimasti il boccale con qualche residuo di birra e alcune macchie di sangue ormai rappreso sulla tovaglia di plastica. - Beh? Cosa aspetti a dare una pulita? - La ragazza senza osare aprir bocca si affrettò a prendere una spugna e corse verso il tavolo mentre lui raggiungeva nuovamente la sua solita postazione, in piedi appoggiato a uno stipite dell'entrata.

Il convoglio di Sonia si mosse con un sobbalzo che non fu sufficiente a svegliarla. Era stata travolta da un sonno agitato a cui non aveva saputo opporsi. Conosceva bene il down del Flexagon e anche se poteva risultare pericoloso aveva deciso di abbandonarsi alla stanchezza. Prima di addormentarsi sul sedile decise che non avrebbe riattivato l'impianto sottocutaneo del diffusore prima di sera. Mancavano ancora molte ore alla notte.

L'uomo in completo blu uscì dal suo ufficio con passo pesante dirigendosi verso la porta scorrevole dell'ascensore. Gli fu sufficiente avvicinare la propria scheda alla pulsantiera perché le porte iniziassero a chiudersi. Era iniziata una discesa lunga diciassette piani che l'avrebbe portato al livello più interno. Quello che dalla per tutti era il palazzo della Contemporary Activities, il centro amministrativo di una delle più grandi industrie del divertimento legalizzato, in realtá occultava nelle proprie viscere ventisei piani di uffici e laboratori.

Era lí dentro che alcune centinaia di agenti come Steve seguivano le missioni che svi svolgevano all'esterno ai quattro angoli del pianeta. Uscì dall'ascensore e dopo pochi passi bussò a un'altra porta identica a quella del suo ufficio. Solo una squallida e anonima interruzione di un altro corridoio bianco illuminato dai neon. Uno scatto elettrico sbloccò l'entrata permettendogli varcare la soglia. - Dimmi - disse una voce di donna dietro una scrivania immersa nella penombra.

- Tutto a posto, Signore. Il messaggio a Vargas è stato trasmesso. - disse Steve - Bene. - Rispose - Non resta molto tempo. Se questa volta qualcosa fallisce sarai ritenuto personalmente responsabile. Ora puoi andare. - concluse e il tono era quello di un ordine.

- D'accordo signore, non me lo dimenticherò. - Ribatté lui uscendo dalla stanza. Brutta schifosa, vorresti essere tu al posto di John pensò rientrando nell'ascensore.

Feroce come un mastino abituato a non mollare la preda, appena diminuiva l'effetto del Flexagon Sonia veniva aggredita da un incubo ricorrente che prendeva il controllo della sua mente appena lei abbassava la guardia. Se qualcuno avesse fatto caso alla donna che dormiva sull'ultimo sedile in fondo al vagone si sarebbe accorto da come si stava agitando che non poteva trattarsi di un ciclo di riposo programmato.

Il treno si trovava ancora dentro un tunnel, poi la luce accecante di una stazione sotterranea e la frenata le violentarono i sensi all'improvviso.

Nel sonno si ritrovava di fronte a una donna alta e muscolosa che per qualche ragione lei doveva catturare. Ma quella non aveva nessuna intenzione e cercava di scappare confondendosi fra la folla di qualche aeroporto. All'inizio del sogno tutto era molto confuso e i luoghi erano soltanto abbozzati come un paesaggio attraverso la nebbia. Poi la realtá onirica assumeva forme sempre piú definite e precise.

Con tutta probabilità quella donna avrá con sé documenti falsi e un biglietto per qualche destinazione sconosciuta, dove sará impossibile potrela rintracciare.

A quel punto il sogno diventava cosí chiaro da correre il rischio di confonderlo con la realtá. L'agente Sonia Vargas ora era improvvisamente consapevole del luogo in cui si trovava. L'immagine del sogno era la realtá a cui si era sosituita quasi del tutto.

Devo assolutamente riuscire a catturarla adesso. Perdere Elisa proprio ora significherebbemandare a monte un intero anno di lavoro. Appostamenti, intercettazioni, inseguimenti, nottate in macchina di fronte agli improbabili rifugi della mia preda. Sono io il mastino che le sta dando la caccia. Elisa. É lei la mia preda.

Improvvisamente appariva quello sconosciuto che aveva il viso e il corpo di John.

Fino a un attimo fa quei due erano insieme. Passeggiavano come due innamorati usciti da un romanzo rosa. Lui si é immobilizzato di colpo osservando Elisa fuggire all'improvviso. Si é messa a correre appena si é accorta di essere in trappola. Ora é affar mio. Tocca all'agente Vargas la cattura.

Sonia riusciva a ricordare altro di quella scena. Sapeva che da un anno dirigeva l'intera l'operazione dando la caccia a Elisa senza un attimo di tregua.

Lui non si é mosso, sembra fosse all'oscuro di tutto. Lui é rimasto lí, fermo come un idiota.

Non aveva alcuna importanza per quanto tempo Sonia avesse dormito. Al risveglio i ricordi del sogno erano sempre gli stessi. Vargas si era distratta un secondo di troppo e non aveva avuto scelta.

Ho dovuto sparare.

Quaranta giorni di agonia poi Elisa se ne era andata in una anonima camera di ospedale ammazzata come un qualsiasi bandito portandosi nella tomba una quantità di risposte che nessuno avrebbe piú avuto. A loro invece erano rimaste soltanto domande.

Sonia si svegliò col sudore che le imperlava la fronte percorsa da un innaturale brivido di freddo.

Scese alla prima stazione senza fare caso a dove si trovava. Sapeva di essere nuovamente da qualche parte nella città e il resto non aveva importanza. Tutto ciò che desiderava in quel momento era soltanto uscire da quella gabbia e tornare in superficie il più presto possibile. Aveva solo bisogno di un po' di tempo per essere nuovamente pronta a recitare la sua parte e portare a termine il lavoro. Il più in fretta possibile, perché il tempo era quasi finito.

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3. Il sogno

La notte che seguí John decise di trascorrerla in studio anziché a letto. Era giá accaduto altre volte quando immerso nella lettura di uno dei suoi libri preferiti perdeva la nozione del tempo.

Avvolto nella penombra con la luce appena sufficiente per distinguere le parole senza che la notte penetrasse del tutto nella stanza seguiva la narrazione pagina dopo pagina. Tuttavia quella volta non era riuscito a estraniarsi del tutto. Una parte della sua mente continuava a ripercorrere il ricordo dei fatti recenti. John non avrebbe potuto a darsi pace fintanto non avesse trovato una spiegazione alle incongruenze che nel corso dell'ultimo mese si erano fatte sempre piú evidenti. I suoi sospetti giorno per giorno si erano trasformati in certezze ma continuava a porsi una quantitá di domande a cui da giorni cercava tentava inutilmente di dare una risposta.

Aveva trascorso la notte a leggere libri.

Da tempo ormai la carta elettronica era sparita dalla circolazione e i libri stampati erano sempre piú rari. Libri non ancora riveduti, s'intende ma john conosceva alcune vecchie librerie che . Erano piccoli e polverosi negozi in cui i librai erano complici di alcuni clienti speciali. In quei luoghi, seppure con una certa difficoltá si potevano ancora trovare copie di vecchi volumi, edizioni originali , come il Frankenstein di Shelley che teneva fra le mani. La sua mania dei libri originali era un piccolo segreto che non avrebbe condiviso con nessuno, nemmeno Sonia ne era al corrente. Quella era la sua unica trasgressione, a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo.

Amava la tragica umanità in cui affondava il destino del personaggio di quel romanzo nato d'uomo e di macchina. Rappresentava un luogo mentale in cui il creatore aveva scelto di escludere Dio, impossibile anche in un'anima sintetica col corpo a brandelli.

John aveva letto più volte la storia affascinante e grottesca di Frankenstein, anche nella versione commerciale che chiunque poteva trovare in libreria. Non riusciva a capire il perché di quei cambiamenti.

Il Frankenstein di Shelley portava con sé l'orrore del diverso, il limite dell'uomo incapace di accettare l'imperfezione, l'esistenza improbabile e ostile di un corpo animato dalla non-vita seppure con un'anima posticcia. Era una storia fantastica che bestemmiava a Dio la propria imperfezione, disumano contrasto con la lineare continuità dell'universo, luogo in cui il Supremo aveva posto l'uomo, a testimonianza della sua stessa esistenza. Eppure nelle nuove edizioni, che pure aveva letto, era stato cambiato il finale invertendo drasticamente il senso della storia.

Mancava ormai soltanto qualche ora prima che la notte si dissolvesse lasciando il posto a una realtá che trovava sempre meno credibile. A tratti aveva la sensazione di vivere in un mondo narcotico e improbabile a cui era impossibile oppore alcuna resistenza. Il sonno lo vinse senza troppo riguardo costringendolo a mettere da parte le sue consapevolezze sopraffatto dalla stanchezza.

Camminò sempre più lentamente fin quasi a fermarsi. Mentre rallentava sentiva l’angoscia e una strana agitazione salirgli dentro. Sapeva che quella strada era l’unica e l’ultima senza vi fosse possibilità di ritorno.

Negli ultimi istanti che lo separavano dalla colossale porta la sua mente fu aggredita da pensieri inconsueti. Era un accavallarsi di idee e possibilità che gli confondevano la realtà, l'ultimo debole diaframma che lo separava dal delirio.

Non era in alcun modo spaventato. Si trattava di una possibilità, quella era la sua ultima occasione. Non aveva mai avuto paura di guardare in faccia nessuno, piuttosto era uno sbruffone un po' attaccabrighe. Ora invece sentiva addosso tutta la sua fragilitá, costretto dalle circostanze a fare l’eroe. Era pefettamente consapevole di essere giunto ad una conclusione. La sensazione di avere un’ultima possibilità, e soltanto quella, era come la lama sottile di una rasoio che stava per colpirlo.

Dopo un cosí a lungo tentennare, dopo innumerevoli volte che non si era sentito pronto si trovava di fronte alla porta.

Altissima e troneggiante la struttura lo dominava. Rappresentava il mistero dell’ignoto e la speranza allo stesso tempo. O forse era soltanto una feritoia sull’indescrivibile che un pazzo avrebbe attraversare di lí a poco.

Nel frattempo rispondendo a ordini meccanici oscuri e incomprensibili la porta si aprí lentamente cigolando sui cardini scoprendo un varco nella penombra.

 

Il guardiano era avvolto in un saio scuro con un cappuccio enorme che non consentiva di scorgerne i lineamenti né lo sguardo. Lui superó il passaggio e in quell'istante fu come se il mondo lo stesse abbandonando mentre il portale si richiudeva alle sue spalle. Si rese immediatemente conto di trovarsi in una dimensione differente e sconosciuta.

L’incappucciato si mosse e lui docilmente lo seguì in quella sala gigantesca. Non dovette nemmeno pensarci semplicemente percorse gli stessi suoi passi assolutamente certo che era ció che doveva fare. Mentre camminava ció che vedeva era allo stesso tempo chiaro ma inspiegabile. Era come se ogni elemento del luogo in cui si trovava fosse stato costruito apposta per risultare familiare ma incomprensibile.

Gli occorse soltanto qualche minuto per abituarsi alla nuova situazione in cui si trovava. Lo irritava dover ammettere a sé stesso che suo malgrado si sentiva a proprio agio.

La logica razionale con cui era abituato ad affrontare la realtá aveva improvvisamente perso ogni significato. Il filo dei suoi pensieri seguiva strade che in quel momento non era in grado di comprendere né tantomeno spiegare.

I passi lenti dello sconosciuto di fronte a lui, l’attesa di qualcosa che risolvesse quella situazione senza senso produceva emozioni e sensazioni che si alternavano continuamente. Si sentiva come fosse stato travolto all'improvviso dall'acqua di un in piena. Un istante prima seguiva i passi lenti e cadenzati di uno sconosciuto e ora si accorse con stupore di essere solo in un punto imprecisato di quell'atrio sconfinato. La penombra confondeva le forme e alterava la percezione del luogo. Si guardó intorno senza riuscire a trovare nemmeno un punto di riferimento o qualcosa che gli risultasse almeno familiare.

 

Sopra di lui il soffitto altissimo sembrava assumere una leggera curvatura a cupola ma dal suo punto di vista cosí in basso non avrebbe potuto affermalo con certezza. Era cosí alto che andava quasi oltre lo sguardo. Le guglie delle navate laterali erano separate dalla zona centrale da colonne altissmie.

Era tutto pervaso da un inquietante silenzio. Non si trattava di un silenzio di morte, piuttosto l’assenza di qualsiasi suono familiare. Era quel silenzio quasi surreale che si sente d'inverno nei boschi dopo le nevicate, quando la vita dorme in attesa di una nuova primavera.

Si era cominciato ad abituare a quella strana penombra, una sorta di buio incompleto senza si potesse scorgere una sorgente di luce. Cominció a distinguere i particolari piú vicini.Si trattava di dettagli nel pavimento di marmo, degli spigoli lavorati di strani oggetti ottagonali che davano l'impressione di una soliditá senza tempo. E le interminabili file di colonne che si perdevano nel buio.

Era come sospeso in una penombra crepuscolare, quell'istante del tramonto in l'ultimo lampo di sole é sospeso a un attimo dall’orizzonte.

Con gli occhi adattati alla semioscuritá poté scorgere elementi che riportavano a forme note. La continuità delle pareti si interrompeva a intervalli regolari per lasciare spazio a rientranze che ricordavano le cappelle laterali delle antiche cattedrali gotiche. Mancavano i santi e gli angeli, mancavano le vetrate colorate a riempire quel luogo di luce calda. La luce dall’alto ricordava vetrate gotiche coi loro santi ed angeli, quasi si trattasse di un luogo pagano e blasfemo.

Un profumo di spezie sconosciute si diffondeva nell'aria riportando alla sua memoria ricordi che non sapeva gli appartenessero.

 

Tutti i suoi sensi erano tesi a percepire il minimo indizio o cambiamento. Si sentiva di fronte a qualcosa di immenso e ignoto in una condizione di totale impotenza. Nonostante la situazione in cui si trovava lo avrebbe dovuto far sentire a disagio se non impaurito era invece inspiegabilmente appagato. Fu allora che gli parve udire un respiro.

A volte le emozioni travolgono in una spirale di pensieri velocissimi impossibili da cogliere e decifrare. In quel momento invece ogni minima percezione aveva il tempo di manifestarsi appieno. Il fatto che tutto ció razionalmente gli fosse del tutto incomprensibile non lo turbava minimamente. Le geometrie aliene di quel luogo erano forse i meccanismi di una macchina capace di dilatare il tempo e le emozioni.

Udì nuovamente il soffio impercettibile di un respiro.

Non sapeva se aveva percorso piú volte lo stesso punto della superficie lucida del pavimento oppure se stava addentrandosi sempre di piú in quel luogo sconosciuto. Eppure ora era quasi certo di non essere solo.

Scorse una nicchia nel muroche ospitava all'interno una struttura quasi nera, stretta e alta che ricordava un antico confessionale aperta su uno dei lati.

Le dimensioni distorcevano la percezione delle distanze. Continuando a camminare scorse seduta su quel piccolo trono la donna vestita di nero. La raggiunse camminando in quella direzione per un tempo senza fine.

Un ricordo lo colpí come uno schiaffo. Ripensò ai suoi quindici anni e un amore rovente, l’unica cosa pulita della sua vita, l’unico ricordo che ora gli riempiva la mente.

- Vieni – sentì sussurrare e immediatamente capì.

– Muriel – riuscì a balbettare mentre lei si sollevava il velo lasciando incontrare i loro sguardi.

Un altro passo e le fu cosí vicino da sentire il suo respiro. Era come l’aveva ricordata per tutta la vita con le lunghe ciocche di capelli neri che le incorniciavano il viso scivolandole dolci sulle spalle.

La nuova realtá lo travolse in un istante poi lo stupore lasciò il posto alla passione.

Accovacciato ai suoi piedi la guardava dal basso verso l’alto. Nuovamente amò e desiderò il volto e gli occhi che lo avevano fatto innamorare anni e anni prima. Senza parlare con un fruscio di seta lei si mosse poi gli attimi diventarono eternitá.

Lui percorse il suo corpo finchè i suoi baci non si persero in quel desiderio mai raggiunto. Lei lo guardava godendo, persa in un generoso sorriso. La prese, scoprendosi capace di gesti ed emozioni che non avrebbe immaginato. Spettatore di sé stesso si perse osservandosi in una profonditá senza dimensione.

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4. Sospetti

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5. L'inquisitore

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6. La funzione

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7. Parola del Padre

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